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Parkinson, come propone di curarlo il fondatore di Facebook

Prendendo in considerazione l’ipotesi  di utilizzare un dispositivo intercranico (Wand) , senza fili, in grado di registrare, stimolare e modificare i movimenti di una scimmia in tempo reale, che una volta impiantato  in un cervello umano potrebbe aiutare a trattare malattie come l’epilessia e il morbo di Parkinson.
L’idea si collega  al più grosso investimento della Chan Zuckerberg Initiative, un progetto creato e sostenuto dal fondatore di Facebook e da sua moglie Priscilla Chan, con l’importante obiettivo di “curare tutte le malattie esistenti”.

Il progetto

Il capitale destinato al progetto ammonta alla considerevole cifra di 5 miliardi di dollari, un cash flow frutto di una vendita di ben  29 milioni di azioni di Facebook.

Il piccolo dispositivo Wand , tra i primi progetti co-finanziati ,i cui test sono già stati eseguiti sulle scimmie, è stato oggetto di uno studio scientifico poi pubblicato sul Journal scientifico Nature Biomedical Engineering.

Il dispositivo

L’Università di Berkeley unitamente alla startup Cortera ha realizzato Wand  che consiste in un piccolo pacemaker cerebrale che può trasmettere il segnale da 128 diversi punti del cervello con l’aiuto di elettrodi e di trasmettere scariche elettriche in grado di influenzare il comportamento.

Il test condotto sulle scimmie ha visto gli animali intenti a muovere un cursore su uno schermo utilizzando un joystick, azione che potevano compiere grazie ad un precedente addestramento.

Wand  ha modificato il movimento degli animali tramite l’invio di un segnale elettrico nel cervello,

L’ utilizzazione possibile

Si spera che Wand possa rappresentare un valido contributo per curare una serie di disturbi del movimento, come ad esempio  la lesione del midollo spinale e l’epilessia,  grazie specificamente alla possibilità di anticipare l’azione motoria, con la possibilità di fermarla.

Progetti simili, come il Neurali di Elon Musk,  erano già stati avviati  in passato  come il famoso Building 8, anche quest’ultimo di Facebook, ma oggi questo procedimento può essere condotto , come novità rilevante, senza l’utilizzo di fili,  evitando quel legame fisico tra macchina e cervello.

Disfunzione visiva, un sintomo misconosciuto del Parkinson

«L’idea che i sintomi visivi possano essere associati alla malattia di Parkinson non è nuova, ma questa è la prima volta che è stata segnalata a livello di popolazione»: lo ha dichiarato a Medscape Medical News Ali Hamedani della University of Pennsylvania di Philadelphia, principale autore di uno studio pubblicato su European Journal of Neurology.
Analizzando i dati ottenuti attraverso un ampio sondaggio, i ricercatori americani hanno scoperto che la disfunzione visiva è significativamente più comune negli individui con malattia di Parkinson che nella popolazione adulta generale. Si tratta tuttavia di un fattore generalmente trascurato e non trattato, anche se peggiora la già compromessa qualità di vita di questi pazienti.
L’indagine è stata condotta su oltre 150.000 individui e ha permesso di calcolare una probabilità più che doppia delle persone con diagnosi di morbo di Parkinson di soffrire di disturbi della visione, sia in quella ravvicinata che in quella a distanza, rispetto alla popolazione generale.
Problemi di vista erano stati più volte segnalati dagli stessi pazienti, dai loro caregiver e dai medici curanti. Dunque, il sospetto evidentemente c’era già, ma il nuovo studio fornisce una conferma suffragata da un indagine su larga scala e il gran numero di dati permette di documentare una correlazione statistica che altrimenti non sarebbe stata così stringente.
Con la collega Allison Willis, Hamedani hanno analizzato i dati di adulti di età pari o superiore a 50 anni forniti dal Survey of Health, Aging and Retirement in Europe (SHARE), un sondaggio multinazionale sulla salute della popolazione di persone che vivono in uno dei 27 Paesi europei e in Israele.
Nonostante il rischio di una compromissione della visione da lontano sia risultata 2,55 maggiore (e della visione da vicino di 2,07), le persone con Parkinson hanno riferito meno spesso questa difficoltà a un oculista, cosicché la condizione è rimasta in molti casi non trattata.
Gli autori dello studio riferiscono che ci sono stati alcuni suggerimenti su un sottile cambiamento nella visione dei colori negli anni precedenti alla diagnosi del Parkinson, ma è improbabile che i pazienti stessi se ne accorgano. «Si potrebbe probabilmente scoprire se venisse fatto uno screening, ma è troppo presto per eventuali raccomandazioni in proposito», ha detto Hamedani. Il ricercatore ha suggerito invece che i medici prendano in esame la funzionalità visiva nei pazienti già diagnosticati, anche se la natura e il significato di questi sintomi non appaiono ancora chiari: non sappiamo se il meccanismo sia il risultato dei cambiamenti associati al Parkinson direttamente negli occhi oppure a livello cerebrale.
Fonte:
Hamedani AG, Willis AW. Self-reported visual dysfunction in Parkinson disease: the Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe. European Journal of Neurology 2019, 0: 1–6.

Alcuni farmaci impiegati nella malattia di Parkinson stimolano la creatività

Nei soggetti con malattia di Parkinson, l’uso di farmaci dopaminergici  in grado di stimolare i recettori per la dopamina, neurotrasmettitore  carente in questa patologia, può determinare degli  effetti collaterali  caratterizzati da un cattivo controllo degli impulsi:  tra questi il gioco d’azzardo patologico, l’ipersessualità e lo shopping compulsivo. Tuttavia  lo stesso trattamento farmacologico ha stimolato in alcuni soggetti  con malattia di Parkinson un aumento della creatività e l’acquisizione di nuove capacità artistiche.

Mentre il cattivo controllo degli impulsi,  quale soprattutto il gioco d’azzardo patologico, è  ben riconosciuto in letteratura, la creatività rimane sottostimata, probabilmente perché è un evento spesso apprezzato e come tale non in grado di creare disagio, né nei pazienti né nei loro familiari. In un recente studio, alcuni ricercatori hanno valutato una ventina di soggetti affetti da malattia di Parkinson che presentavano, dopo il trattamento dopaminergico, una maggiore creatività artistica rispetto al passato. Tra le attività artistiche riscontrate al primo posto la pittura, ma anche lo sviluppo di abilità poetiche (Schrag e Trimble 2001; Walker et al, 2006).

Non c’è dubbio che un ambiente familiare stimolante potrebbe far emergere più frequentemente aspetti creativi in corso di malattia di Parkinson  trattata con farmaci dopaminergici. Ma un aspetto non secondario è che gli stessi pazienti in cui vi è la  comparsa di attività artistiche riferiscono anche una condizione di benessere e la perdita della consapevolezza della malattia e persino dei limiti fisici legati alla malattia (Chatterjee et al, 2006).

Fonte: Garcia-Ruiz PJMartinez Castrillo JCDesojo LV. Creativity related to dopaminergic treatment: A multicenter study. Parkinsonism Relat Disord. 2019 Feb 22. pii: S1353-8020(19)30056-2.

Bibliografia

Chatterjee A, Hamilton RH, Amorapanth PX: Art produced by a patient with Parkinson’s disease. Behav Neurol 2006;17:105–108

Schrag A, Trimble M: Poetic talent unmasked by treatment of Parkinson’s disease. Mov Disord 2001;16:1175–1176

Walker RH, Warwick R, Cercy SP: Augmentation of artistic productivity in Parkinson’s disease. Mov Disord 2006;21:285–286.

E’ possibile arrestare il progressivo peggioramento della malattia di Parkinson?

La malattia di Parkinson è una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale, descritta per la prima volta nel 1817 da un medico inglese, James Parkinson. E’ caratterizzata da  tre sintomi principali: lentezza nei movimenti, rigidità e tremore.  Le cause sono legate  alla degenerazione di  alcune strutture del sistema nervoso centrale, dove viene prodotta la dopamina, il principale  neurotrasmettitore fondamentale per il controllo dei movimenti corporei. Il trattamento della malattia si avvale tuttora di farmaci in grado di fornire la dopamina carente, attraverso il suo precursore, la L-DOPA, oppure  di stimolare le cellule su cui tale trasmettitore agisce, le cellule dopaminergiche.  Purtroppo, a causa dei processi di neuro-degenerazione, insiti  nella malattia di Parkinson, tali farmaci col tempo perdono progressivamente la loro efficacia.

Sull’ultimo numero del  Journal of Parkinson’s Disease, del  febbraio 2019, è stato pubblicato  un pioneristico programma che prevede un  trattamento farmacologico  sperimentale e innovativo da applicare direttamente sul cervello delle persone colpite dalla malattia.

La speranza: ripristinare le cellule danneggiate nel corso della malattia.

Lo studio si basa sulla  possibilità  di fornire ai cervelli compromessi dalla malattia di Parkinson una maggiore quantità dei  livelli di un fattore di crescita presente in natura, il fattore neurotrofico derivato dalla linea cellulare gliale (GDNF), che ha dimostrato di essere in grado di rigenerare le cellule cerebrali dopaminergiche danneggiate nei soggetti con questa patologia.

Sei pazienti hanno preso parte allo studio pilota iniziale che ha  valutato soprattutto la sicurezza dell’approccio terapeutico. Altre 35 persone hanno poi partecipato allo studio vero e proprio che è stato svolto  in doppio cieco per la  durata di nove mesi:  metà dei soggetti, selezionati   a caso,  ricevevano infusioni mensili di GDNF, mentre l’altra metà era trattata con  infusioni di placebo.

Per effettuare le infusioni mensili è stato impiantato in ogni soggetto un sistema di erogazione appositamente progettato, utilizzando la neurochirurgia assistita da robot. Questo sistema di erogazione ha consentito di somministrare ogni quattro settimane infusioni di GDNF, a dosaggio elevato ogni quattro settimane,  direttamente sulle aree cerebrali colpite dalla malattia con precisione millimetrica, attraverso una porta transcutanea montata sul cranio dietro l’orecchio. L’alto tasso di compliance (99,1%) nei partecipanti reclutati in  tutto il Regno Unito ha dimostrato che il sistema di  somministrazione del farmaco, per infusione cerebrale ripetuta, è fattibile e tollerabile.

Dopo 18 mesi di terapia, tutti i pazienti che  avevano ricevuto GDNF hanno mostrato un miglioramento delle aree cerebrali colpite dalla malattia e dei sintomi collegati con una valutazione, da parte dei ricercatori, da moderata a importante, rispetto alle condizioni iniziali. Questo miglioramento si è osservato anche in quei soggetti che inizialmente erano stati  inseriti nel gruppo placebo ed erano poi passati al trattamento con GDNF.  La somministrazione di  GDNF si è dimostrata  sicura per tutto il periodo dello studio.

L’investigatore principale dello studio, il dott. Alan L. Whone della Bristol Medical School dell’Università di Bristol, Regno Unito,  ha dichiarato che: “ Nei soggetti trattati con GDNF Il miglioramento delle aree colpite dalla malattia è andato al di là di quanto mai visto in precedenza” ed ha poi aggiunto che: “alte dosi di GDNF sono in grado di risvegliare e ripristinare le cellule cerebrali dopaminergiche, progressivamente compromesse  nel corso di  malattia di Parkinson”.

Anche alla luce del processo neurodegenerativo alla base della malattia di Parkinson, i farmaci attualmente in uso sono destinati a perdere progressivamente la loro efficacia. Non vi è dubbio  pertanto  che questo studio, se confermato da valutazioni successive, rappresenti una svolta decisiva nel trattamento della malattia di Parkinson.

Fonte: Alan L. Whone et al: “Extended Treatment with Glial Cell Line-Derived Neurotrophic Factor in Parkinson’s Disease” published online in the Journal of Parkinson’s Disease, in advance of Volume 9, Issue 2 (April 2019) by IOS Press

Parkinson: il microbiota intestinale può interferire con la terapia

Che cosa c’entra il microbiota intestinale con una condizione neurodegenerativa come la malattia di Parkinson? Fino a ieri, niente, si pensava. Oggi, invece, sembra che una relazione ci sia, quanto meno per chi assume farmaci a base di levodopa per tenere sotto controllo tremori e rigidità muscolare. Vale a dire, la stragrande maggioranza dei pazienti.

Il ruolo dei batteri intestinali

Gli intensi studi condotti negli ultimi anni ci stanno insegnando che il microbiota intestinale serve praticamente a tutto, facendo da interfaccia tra noi e il mondo e regolando innumerevoli reazioni enzimatiche e funzioni fisiologiche. Quando è in buona salute, tutto procede per il meglio; quando si destabilizza o si impoverisce, il rischio di veder insorgere o peggiorare disturbi e malattie di vario tipo aumenta sensibilmente.

Nel caso della malattia di Parkinson, la situazione è un po’ diversa. Le caratteristiche e l’attività dei batteri intestinali dei pazienti, infatti, non creano di per sé problemi, ma possono interferire con l’efficacia della terapia con levodopa: composto precursore della dopamina, che deve essere costantemente fornito dall’esterno per rimpiazzare la dopamina non più prodotta dalle cellule cerebrali della substantia nigra, degenerate a causa della malattia.

La levodopa non viene mai somministrata da sola, ma sempre in associazione a una seconda sostanza chiamata “inibitore delle decarbossilasi”, indispensabile per far sì che la levodopa non sia rapidamente trasformata in dopamina dalle decarbossilasi presenti nel sangue, ma che possa raggiungere il cervello, dove deve esplicare la propria azione di modulazione del tono muscolare.

È noto da decenni che, fin dall’esordio della malattia, pazienti diversi necessitano di dosaggi differenti di levodopa/inibitori delle decarbossilasi per tenere sotto controllo i sintomi della malattia di Parkinson e che, in tutti i casi, il dosaggio efficace aumenta progressivamente nel tempo (a causa di una diminuzione di efficacia dei farmaci). Finora, però, nessuno sapeva spiegare le ragioni alla base di questi fenomeni.

I nuovi dati sull’efficacia della terapia

Uno studio recentemente pubblicato su Nature Communication suggerisce perché ciò avvenga. In sostanza, il problema sembra essere legato alla capacità di alcuni batteri intestinali (in particolare, lattobacilli ed enterococchi, di cui è ricco il microbiota intestinale costitutivo) di trasformare la levodopa in dopamina a livello dell’intestino tenue, rendendola così facilmente degradabile subito dopo l’assorbimento e impedendo che ne arrivi una quantità sufficiente al cervello.

A quanto pare, alcuni pazienti affetti da malattia di Parkinson presentano un microbiota particolarmente attivo su questo fronte, a causa di un’attività delle decarbossilasi batteriche molto elevata: ciò renderebbe i pazienti parzialmente “resistenti” alla terapia con levodopa, da cui potrebbero trarre benefici minori della media e via via decrescenti nel tempo.

Benché resti da capire come sfruttare questi nuovi dati a livello clinico-pratico, si tratta di un’informazione importante perché offre la possibilità di migliorare e prolungare l’efficacia della terapia con levodopa con un approccio diverso da quelli usati finora, ossia modulando la composizione del microbiota intestinale e/o l’attività delle decarbossilasi batteriche.

Fonte

Sebastiaan P et al. Gut bacterial tyrosine decarboxylases restrict levels of levodopa in the treatment of Parkinson’s disease. Nature Communications 2019;10:310. doi:10.1038/s41467-019-08294-y

Il morbo di Parkinson: Sintomi, cause e cure

Il morbo di Parkinson è una patologia cronica ad andamento progressivo; fu descritta per la prima volta da James Parkinson nel 1817. Dopo le demenze è la patologia neurodegenerativa più comune.

EPIDEMIOLOGIA

La patologia è ugualmente diffusa in tutto il mondo; l’età media di insorgenza è fra 55 e 60 anni di età e colpisce l’1-2% di tutta la popolazione di età oltre i 65 anni; il 5% dei soggetti affetti ha meno di quarant’anni.

In Italia sono circa 220mila le persone colpite.

EZIOPATOGENESI

Sono stati individuati vari fattori di rischio per il morbo di parkinson, tra cui età, storia familiare, genere maschile, esposizione ambientale a erbicidi, pesticidi, metalli (manganese, ferro), acqua di pozzo, residenza rurale, traumi psichici e fisici, stress emozionali.

Un fattore protettivo è invece il fumo di sigarette.

La causa della malattia è sconosciuta, ma è probabilmente il risultato di una interazione fra tossici ambientali, suscettibilità genetica e senescenza. Disfunzioni mitocondriali e stress ossidativo sono ormai considerati tra i principali meccanismi alla base della malattia.

In una piccola percentuale dei casi è stata dimostrata una causa genetica. Tra le principali mutazioni quelle che riguardano i geni che codificano per l’alfa-sinucleina e per la parkina.

La patogenesi è connessa alla degenerazione di gran parte dei neuroni dopaminergici della sostanza nera (struttura nervosa posta a livello del mesencefalo). Ciò comporta la ridotta produzione di dopamina, neurotrasmettitore fondamentale nella regolazione del movimento. I sintomi della malattia diventano evidenti quando più del 70% dei neuroni dopaminergici sono stati persi.

Le alterazioni principali coinvolgono la sostanza nera che appare più pallida rispetto al normale; al suo interno si notano riduzione del numero di neuroni e nei neuroni sopravvissuti inclusioni di una sostanza denominata alfa-sinucleina: sono i cosiddetti corpi di Lewy, che non sono specifici della malattia di Parkinson, potendosi riscontrare anche nella Demenza a corpi di Lewy e nella Demenza di Alzheimer.

SINTOMATOLOGIA

L’esordio è subdolo con tremore in una mano, ma spesso anche con dolori articolari, depressione del tono dell’umore, facile stancabilità .

I sintomi cardinali sono il tremore a riposo, la lentezza nei movimenti, detta anche bradicinesia,

e la rigidità. A questi sintomi bisogna aggiungere l’instabilità posturale. La PD è una patologia asimmetrica in quanto, soprattutto nelle fasi iniziali, colpisce più una metà del corpo rispetto all’altra .

Passiamo ad illustrare i sintomi fondamentali.

Il tremore a riposo, presente in circa il 70% dei casi, ha una frequenza di 4-6 scosse al secondo e all’esordio colpisce solo una mano e, in particolare, le prime tre dita, dando l’impressione di “contare monete”; il tremore si accentua in condizioni di tensione emotiva, stanchezza, o quando il soggetto si sente osservato, mentre è assente durante il sonno.

La rigidità è caratterizzata da un aumento del tono muscolare con resistenza costante alla mobilizzazione. Può essere presente il cosiddetto fenomeno della ruota dentata, in quanto la presenza di resistenza alla mobilizzazione passiva è alternata a cedimenti improvvisi, fa pensare agli scatti di un ingranaggio.

La lentezza nei movimenti (bradicinesia) è il terzo segno cardine della malattia, accompagnata anche riduzione delle motilità. Durante la marcia il soggetto con PD dà l’impressione di avere gli arti superiori attaccati al corpo senza i caratteristici movimenti pendolari.

Si osservano inoltre difficoltà come usare il coltello o la forchetta, abbottonarsi o sbottonarsi, radersi. La scrittura diventa tremante e incerta e si rimpicciolisce (micrografia), la mimica facciale è ridotta (amimia) (Figura 8). Il soggetto, col passare del tempo, assume una postura inclinata con testa flessa in avanti e ginocchia e gomiti flessi.

L’instabilità posturale è la difficoltà nel mantenere la stazione eretta in risposta a spinte esterne; può essere la causa di cadute rovinose ed è presente in circa il 40% dei casi.

SINTOMI NON MOTORI

L’interessamento del sistema nervoso autonomo è caratterizzato dalla presenza di ipotensione ortostatica, stitichezza, scialorrea, seborrea, aumento della sudorazione a livello della testa e del collo. Possono essere presenti disturbi urinari come urgenza minzionale e aumento della frequenza urinaria.

La compromissione cognitiva, in genere moderata, è presente sino al 60% dei casi; vi può essere interessamento dell’attenzione, della concentrazione e della memoria e lentezza nella esecuzione dei compiti esecutivi. Portroppo in alcuni casi sino al nel 20% può essere presente una franca demenza di tipo sottocorticale

La depressione del tono dell’umore è spesso presente, ma sotto-diagnosticata e sotto-trattata. I disturbi del ritmo sonno-veglia sono molto comuni potendo colpire sino al 90% delle persone con PD. Possono consistere in eccessiva sonnolenza diurna o in difficoltà nell’iniziare o nel mantenere il sonno, oppure in scarsa qualità del sonno con frequenti risvegli e riduzioni delle fasi III e IV del sonno e del sonno REM.

DIAGNOSI

È basata essenzialmente sul riconoscimento dei tre segni principali, tremore a riposo, rigidità e bradicinesia con esordio unilaterale e sulla risposta alla L-DOPA.

La TC o la RM dell’encefalo sono normali o al massimo possono dimostrare la presenza di un certo grado di atrofia cerebrale, per altro molto variabile.

Per valutare le vie dopaminergiche presinaptiche può essere utilizzata la SPET-DaT SCAN che serve ad evidenziare un’alterazione delle vie dopaminergiche, ma non è sempre superiore alla diagnosi clinica.

Per valutare il grado di invalidità è utile il ricorso a Scale di valutazione. Le più utilizzate sono la UPDRS e la Scala di Hoehn e Yahr.

TERAPIA

Inizialmente vi è una buona risposta farmacologica; successivamente, col peggiorare della malattia, la risposta ai farmaci peggiora e compaiono delle fluttuazioni soprattutto nell’ambito dei sintomi motori. Tra questi, il fenomeno on-off, improvvisa mancanza di risposta ai farmaci senza relazione con i tempi di assunzione, il wearing-off, ricomparsa prevedibile della sintomatologia parkinsoniana dopo un certo numero di anni per la minor durata di risposta ai farmaci, e il freezing of gait (congelamento della marcia) o semplicemente freezing, improvviso blocco motorio che si presenta all’inizio della deambulazione, o nell’attraversamento di passaggi stretti, o nei cambi di direzione di marcia; in quest’ultimo caso il soggetto riferisce di avere i piedi come incollati al pavimento.

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