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Dalla parte del paziente: i principi di base e i diritti del malato

I principi di base accettati nella nostra tradizione culturale sono: il rispetto della persona, il principio di beneficienza, il principio di non maleficenza, l’equità e la giustizia.

Il rispetto della persona

Il rispetto della persona comprende almeno due fondamentali convincimenti di natura etica: in primo luogo che gli individui devono essere trattati come agenti autonomi; in secondo luogo, che le persone la cui autonomia è diminuita hanno diritto ad essere protette. Il principio del rispetto delle persone, si divide quindi in due esigenze morali distinte: riconoscere l’autonomia e proteggere coloro la cui autonomia è diminuita. Una persona autonoma è un individuo capace di riflettere sui suoi obiettivi personali. Rispettare l’autonomia significa dare peso alle opinioni ed alle scelte deliberate dalle persone autonome, astenendosi dall’ostacolare le loro azioni. Mancare di rispetto nei confronti di una persona autonoma significa negare valore ai giudizi ponderati, rifiutargli la libertà individuale di agire, oppure rifiutare di fornirgli l’informazione necessaria per formulare un giudizio. Tuttavia, non tutti gli esseri umani sono capaci di autodeterminazione. Alcune persone, perdono questa capacità del tutto o in parte, come abbiamo visto precedentemente, a causa di una malattia o dell’incapacità mentale.
Il rispetto degli immaturi e degli incapaci esige che li si protegga lungo tutto il processo di maturazione e finché restano in stato di incapacità.

Il principio di beneficenza

Per trattare le persone in modo morale, bisogna non solo rispettare le loro decisioni e proteggerle contro ogni danno, ma anche sforzarsi di assicurare loro il benessere. Tuttavia, bisogna conoscere la causa di un danno se lo si vuole evitare; e nel cercare questa causa le persone potrebbero essere esposte al rischio di ricevere qualche danno.

Il principio di non maleficenza

Questo principio si esprime nel non recare intenzionalmente danno. Ma, come tutti gli altri, questo principio non ha validità assoluta, quindi non necessariamente è connesso con la difesa della vita, ma è compatibile anche con giudizi intorno alla qualità della vita, per quanto questa nozione sia problematica ed ambigua.

Equità e giustizia

Che cosa spetta a ognuno?
Si ha ingiustizia quando un beneficio a cui la persona ha diritto le è rifiutato senza una ragione valida. Tale principio si riconnette al diritto al consenso informato. La persona assistita ha il diritto a ricevere preventivamente un’informazione adeguata in merito allo scopo e alla natura dell’intervento, nonché alle sue conseguenze ed ai suoi rischi. La persona interessata può liberamente ritirare il proprio consenso in qualsiasi momento. Solamente il paziente informato sa cosa sia bene per lui.

Carta dei diritti del neonato prematuro

Il 22 settembre 2010, il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, ha presentato all’Assemblea Generale dell’Onu la Strategia Globale per la Salute delle Donne e dei Bambini in occasione della quale ha esortato alla necessità di un impegno congiunto.
L’Italia è stata la prima a rispondere a quest’appello con la presentazione, il 21 dicembre 2010, in Senato del “Manifesto dei diritti del bambino prematuro”, frutto dell’impegno di un team multidisciplinare composto da neonatologi, ginecologi e associazioni di genitori.
Il Manifesto contiene la “Carta dei diritti del bambino nato prematuro”, promossa da Vivere
Onlus, il coordinamento nazionale delle associazioni per la neonatologia. Questo decalogo rappresenta un importante approdo giuridico per tutti i bambini e per i diritti della persona, oltre che per i diritti del neonato prematuro. Essa è frutto dell’associazionismo, tra istituzioni pubbliche e private oltre che a livello familiare.
In questa sede, potremmo considerare la sua emanazione, il frutto di un impegno di advocacy di giustizia sociale. Infatti tale Carta nasce dall’esigenza di tutelare persone silenti, come i neonati prematuri. Con tale locuzione si vuole intendere un neonato ad alto rischio perinatale perché nato prima del completamento della 37° settimana di gestazione. La nascita pretermine impedisce a molti organi di raggiungere la maturazione fisiologica necessaria per affrontare l’ambiente extra uterino.
Questa carta nasce dall’esigenza di far riconoscere dalle istituzioni il diritto prioritario dei neonati prematuri, di usufruire, nell’immediato e nel futuro del massimo livello di cure congrue alla loro condizione. Quanto stabilito in tale Carta, concerne anche i diritti del neonato con patologie richiedenti ricovero.

L’art. 1 recita: “Il neonato nato prematuro deve, per diritto positivo, essere considerato persona”. Il neonato prematuro non è un paziente o un soggetto ma pienamente persona e dunque “in relazione”, non a caso nella Carta si insiste molto sulle relazioni. Il bambino prematuro, anche se nell’incubatrice, attaccato a tubicini ed altro, è e deve essere considerato “persona”.

L’art. 2 recita “Tutti i bambini hanno diritto di nascere nell’ambito di un sistema assistenziale che garantisca loro sicurezza e benessere, in particolare nelle condizioni che configurino rischio di gravidanza/parto/nascita pretermine, di sofferenza feto-neonatale e/o di malformazioni ad esordio postnatale”. Questo articolo riguarda tutti i bambini e rappresenta un monito per tutta la società odierna che offre benessere ma difficilmente è in grado di offrire sicurezza.

L’art. 3 recita: “Il neonato prematuro ha diritto ad ogni supporto e trattamento congrui al suo stato di salute e alle terapie miranti al sollievo dal dolore. In particolare ha diritto a cure compassionevoli e alla presenza e all’affetto dei propri genitori anche nella fase terminale”. Ci preme sottolineare la percezione multidimensionale del dolore e della persona, che si evince dall’uso delle espressioni “sollievo dal dolore” e “cure compassionevoli”. L’espressione conclusiva “anche nella fase terminale”, è indicativa della tutela della vita fino al suo termine.

L’art. 4 recita: “Il neonato prematuro ha diritto al contatto immediato e continuo con la propria famiglia, dalla quale deve essere accudito. A tal fine nel percorso assistenziale deve essere sostenuta la presenza attiva del genitore accanto al bambino, evitando ogni dispersione tra i componenti il nucleo familiare”. In questo articolo si mette in risalto, il ruolo del nucleo familiare nella sua interezza, non relegando solo alla madre un ruolo significativo nella crescita e nell’assistenza prestata al suo bambino. Ciò significa che sono fondamentali, non solo per il neonato prematuro ma per ogni bambino, la coppia genitoriale e le loro relazioni. Di ogni singolo genitore va accentuato il ruolo e la funzione nell’equilibrio familiare. In quest’articolo, inoltre, si fa riferimento al concetto di “contatto”, inteso come fisico e psicologico e al concetto di continuità che si riconnette, anche etimologicamente al concetto di “contenimento” ovvero di holding.

L’art. 5 recita: “Ogni neonato prematuro ha diritto ad usufruire dei benefici del latte materno durante tutta la degenza, e non appena possibile, di essere allattato al seno della propria mamma. Ogni altro nutriente deve essere soggetto a prescrizione individuale quale alimento complementare e sussidiario”. Quest’articolo richiama l’attenzione sull’estrema eterogeneità della situazione ospedaliera in Italia, in quanto ci sono ospedali che praticano la “marsupioterapia” (così chiamata perché il neonato è posato sul petto della mamma) e altri ospedali dove, invece, i genitori possono avvicinarsi all’incubatrice solo per un paio di ore al giorno.

L’art. 6 recita: “Il neonato prematuro ricoverato ha il diritto di avere genitori correttamente informati in modo comprensibile, esaustivo e continuativo sull’evolvere delle sue condizioni e sulle scelte terapeutiche”. In quest’articolo si pone in rilievo la considerazione del neonato come persona ponendosi come contrasto alla depersonalizzazione del malato.

L’art. 7 recita: “Il neonato prematuro ha il diritto di avere genitori sostenuti nell’acquisizione delle loro particolari e nuove competenze genitoriali”. Questo articolo mette in risalto la differenza tra generatività e genitorialità, ponendo l’accento sul fatto che la genitorialità sia frutto di una scelta consapevole, con una dimensione temporale
continuativa e non solo l’espressione di un proprio desiderio o bisogno, limitato nel tempo.

L’art. 8 recita: “il neonato prematuro ha diritto alla continuità delle cure post-ricovero, perseguita attraverso un piano di assistenza personale esplicitato e condiviso con i genitori, che coinvolga le competenze sul territorio e che, in particolare, preveda, dopo la dimissione, l’attuazione nel tempo di un appropriato follow-up multidisciplinare, coordinato dall’équipe che lo ha accolto e curato alla nascita e/o che lo sta seguendo”. Questo articolo mette in risalto il passaggio dalla medicina della “cura” a quella del “prendersi cura”.

L’art. 9 recita: “In caso di esiti comportanti disabilità di qualsiasi genere e grado, il neonato ha il diritto di ricevere le cure riabilitative che si rendessero necessarie ed usufruire dei dovuti sostegni integrati di tipo sociale, psicologico ed economico”. In quest’articolo si fa riferimento al dovere della solidarietà, così come sancito all’articolo 2 della nostra Costituzione.

L’art. 10 recita: “Ogni famiglia di neonato prematuro ha il diritto di vedere soddisfatti i propri speciali bisogni, anche attraverso la collaborazione tra Istituzioni ed Enti appartenenti al Terzo Settore”. In quest’articolo ci si concentra sull’efficacia degli interventi che vengono erogati.

Fonte: “I modelli Assistenziali intra-partum” di Mediserve, di Vittorio Artiola, Simona Novi, Salvatore Paribello, Ferdinando Pellegrino, Giuseppina Piacente, Andrea Vettori

Standard per un comportamento etico: Advocacy, caring, competenza, responsabilità

I concetti fin’ora esposti possono essere messi in relazione con il codice deontologico, secondo quanto segue:
L’articolo 1.5 recita:
L’ostetrica/o, responsabile della formazione e dell’aggiornamento del proprio profilo professionale, promuove e realizza in autonomia e in collaborazione la ricerca di settore (Competenza).
L’articolo 2.1 recita:
L’ostetrica/o presta assistenza rispettando la dignità e la libertà della persona promuovendone la consapevolezza in funzione dei valori etici, religiosi, culturali, nonché, delle condizioni sociali nella esclusiva salvaguardia della salute dei suoi assistiti (Autonomia/Caring).
L’articolo 2.13 recita:
L’ostetrica/o sostiene la salute globale nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e si impegna alla cooperazione per contrastare le disuguaglianze nell’accesso alle cure e promuovere la salute riproduttiva e di genere, nel mondo (Caring/ Advocacy).
L’articolo 3.1 recita:
L’ostetrica/o tutela la dignità e promuove la salute femminile in ogni età, individuando situazioni di fragilità, disagio, privazione e violenza, fornendo adeguato supporto e garantendo la segnalazione alle autorità preposte, per quanto di sua competenza (Caring/Advocacy).
L’articolo 3.5
Con il consenso della persona interessata, l’ostetrica/o promuove le tecniche di contenimento del dolore della donna e nel neonato per quanto di sua competenza attraverso una scelta clinicamente ed eticamente appropriata (Caring/ Autonomia).
Il codice deontologico dell’ostetrica/o presenta degli articoli dove può essere rintracciato un riferimento al concetto di advocacy, senza però che ci sia utilizzo di questo termine. In particolare, crediamo che nel capo 3 che concerne i rapporti con la persona assistita e nel capo 5 relativo ai rapporti con le istituzioni sanitarie e con il collegio, si possano ravvedere concetti compatibili con l’applicazione dell’advocacy.

Rapporti con la persona assistita

3.1 L’ostetrica/o tutela la dignità e promuove la salute femminile in ogni età, individuando situazioni di fragilità, disagio, privazione e violenza, fornendo adeguato supporto e garantendo la segnalazione alle autorità preposte, per quanto di sua competenza.
3.2 L’ostetrica/o promuove e si impegna a garantire la continuità assistenziale accompagnando e prendendosi cura della donna, della coppia, del nascituro durante la gravidanza, il travaglio, il parto ed il puerperio, al fine di garantire una salute globale degli assistiti.
3.3 L’ostetrica/o si attiva per garantire un’assistenza scientificamente validata ed appropriata ai livelli di necessità. Si impegna nella tutela e nella sorveglianza dei processi fisiologici della sessualità, della fertilità e della salute riproduttiva della donna e della coppia.
3.8 L’ostetrica/o si impegna a promuovere la salute globale e riproduttiva della persona fornendo un’informazione corretta, appropriata e personalizzata rispetto agli stili di vita.
3.9 L’ostetrica/o nel rispetto dei programmi di salute multidisciplinari, integra le attività di sua competenza a quelle degli altri professionisti e si impegna a fornire informazioni complete e corrette sui programmi di prevenzione, assistenza/cura, riabilitazione e palliazione, utilizzando metodologie di comunicazione efficaci e favorenti i processi di comprensione della persona.
Rapporti con le istituzioni sanitarie e con il collegio
5.1 Nell’esercizio della professione, l’ostetrica/o, contribuisce con il suo impegno ad assicurare l’efficienza del servizio ed un corretto impiego delle risorse nel rispetto dei principi etici di solidarietà e di sussidiarietà.

Rapporto tra advocacy e case/care management e consenso informato

Date le caratteristiche dell’ostetrica/o che praticando l’advocacy si pone come “core” del processo comunicativo tra persona assistita, famiglia, medico ed altri operatori sanitari, risulta evidente che questa applicazione si pone all’interno del modello di “case management”, e del suo superamento ovvero il “care management”.
Infatti dalla diretta applicazione dell’advocacy, deriva anche il ruolo manageriale dell’ostetrica/o in quanto gestore di fatto del processo comunicativo, intervenendo e coordinando tutti i passaggi del processo di assistenza.
L’operatrice sanitaria si fa leader del processo assistenziale e gestisce di fatto l’atto comunicativo efficace.
L’introduzione di questo modello organizzativo ha arricchito professionalmente questa figura professionale: che ponendosi come problem solver ha utilizzato un livello maggiore di motivazione e di responsabilità professionale.
L’ostetrica nel Case Manager ricopre contemporaneamente vari ruoli operativi:
• clinico;
• manageriale;
• finanziario.
Il passaggio successivo che rappresenta un’evoluzione, ossia il “care management”, si pone
come risposta ai cambiamenti dei soggetti del sistema sanitario, con lo scopo primario di soddisfare le esigenze bio-psicosociali della persona.

Il care manegement è quindi un programma incentrato sulla persona, non più sul caso che richiede l’intervento di un professionista che concepisce l’individuo in chiave olistica.
Questa evoluzione, è indicativa di una capacità di maturazione della professione ostetrica e con questo substrato strutturale e organizzativo, uno degli elementi più evidenti di questa consapevolezza unitariamente a questi cambiamenti è la funzione di advocacy, qualità distintiva dell’applicazione del Care Manager.
Attraverso il passaggio dal case management al care management, dal considerare le qualità professionali si è passati al considerare le qualità personali, con conseguente centralizzazione della risorsa umana nella dinamica competitiva aziendale. Ecco allora che il sapere nozionistico ha lasciato il posto al know how pratico ed interattivo.
Uno degli strumenti più importanti del Care Management infermieristico è l’empowerment che mira a favorire nella persona assistita l’acquisizione di potere attraverso l’adozione dell’imprescindibile diritto umano di autonomia che si concretizza con l’accrescimento della possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita.
Uno degli strumenti, della realizzazione di questo empowerment è il diritto al consenso informato per il paziente, che si tramuta in un dovere per l’ostetrica/o.

CHE COSA SIGNIFICA CONSENSO INFORMATO?

Il consenso informato ha in sé due concetti chiave:
• informare prima del consenso;
• il soggetto principale non deve essere il proponente bensì il destinatario.
La mancata osservazione di tali principi ha comportato numerose denunce nei confronti del personale sanitario da parte di pazienti che si ritengono danneggiati non per le conseguenze degli errori terapeutici, ma per l’errata ed omessa informazione nei loro confronti, riguardo ai rischi ed alle conseguenze della terapia.
Il consenso fornito dal paziente, per la prestazione a cui dovrà sottoporsi, diventa il mezzo tramite il quale si esercita il principio di autodeterminazione, cioè il diritto di ogni essere umano di poter disporre liberamente delle proprie scelte.
Il coinvolgimento diretto dell’assistito è necessario, quindi, per il soddisfacimento del suo diritto alla conoscenza dei dati clinici che lo riguardano, ma anche per renderlo parte attiva durante lo svolgimento del suo piano assistenziale.
Di riflesso, la violazione del dovere dell’informazione può essere fonte di responsabilità professionale in ambito giuridico e più specificatamente in sede civile o penale.
I requisiti intrinseci di un valido consenso sono:
1. la qualità della comunicazione;
2. la comprensione dell’informazione;
3. la libertà decisionale da parte dell’assistito;
4. la capacità decisionale.
Gli standard di informazione proponibili possono essere di tipo professionale, medio, soggettivo. Il primo (di tipo professionale) dà un’informazione che soddisfa il criterio di correttezza tecnica secondo lo stato delle conoscenze mediche, con conseguenti possibili incomprensioni da parte del destinatario dell’informazione.

Lo standard medio deve essere rapportato a quanto una persona potrebbe comprendere della procedura che lo riguarda.
Lo standard soggettivo, in cui l’assistito vuole o può comprendere ciò che ritiene di maggiore significato per lui, con una conseguente personalizzazione di ciò che gli è stato detto.

Il consenso informato nel codice dell’ostetrica/o

Il medico, non è più l’unico professionista chiamato ad occuparsi di informazione e scelte consapevoli rispetto agli interventi sanitari; con lui tutti gli altri professionisti e non solo socio-sanitari, sono chiamati ad inserire il proprio intervento in uno scenario di decisioni consensuali, in cui professionisti e assistito, in collaborazione tra loro, formulano le scelte diagnostico-terapeuticheassistenziali rispetto alle varie opzioni possibili.
In particolare nell’informare l’assistito è implicata la figura dell’ostetrica/o. Esaminando attentamente gli articoli del codice dell’ostetrica/o, in particolare quelli riguardanti i
rapporti con la persona assistita, risuonano parole come: alleanza terapeutica, scelta consapevole e comprensibile del paziente, impiego di metodologie comunicative caratterizzate, dall’efficacia, dalla comprensibilità, dalla multidisciplinarietà, dalla completezza dell’informazione.
Ed ancora, riecheggiano temi riguardanti la partecipazione attiva della donna, ai programmi
diagnostici e terapeutici, al diritto alla procreazione cosciente e responsabile.
Tutti questi temi concorrono alla definizione di una sovra categoria di riferimento che inerisce il consenso informato, a cui espressamente si fa riferimento nell’articolo 3.5 e 3.10:
• 3.5 – Con il consenso della persona interessata, l’ostetrica promuove le tecniche di contenimento
del dolore nella donna e nel neonato per quanto di sua competenza attraverso una
scelta clinicamente ed eticamente appropriata.
• 3.10 – L’ostetrica/o, al di fuori dei casi di emergenza-urgenza, prima di intraprendere sulla persona qualsiasi atto professionale, garantisce l’adeguata informazione al fine di ottenere il consenso informato, sulla base di una vera e propria alleanza terapeutica con la persona. L’informazione clinica non va intesa, infatti, come esclusivamente medica: in realtà la clinica è un ambito comune a molte professioni, ad esempio quella dell’ostetrica/o.
Quindi rientrano tra le informazioni cliniche necessarie all’assistito, almeno quanto la diagnosi medica, la pianificazione dei percorsi diagnostici-terapeutici dell’area ostetrico-ginecologica neonatale, e le prescrizioni relative alle attività tese a garantire la continuità assistenziale (gravidanza, travaglio, parto, puerperio).
Le informazioni relative al programma diagnostico-terapeutico dovranno essere puntuali e comprensibili per il paziente.
Il consenso, deve essere espresso prevalentemente in forma scritta, con particolare attenzione alla necessità di riassunzione del consenso informato nei casi in cui, nel corso dell’attuazione del piano terapeutico, si rendessero necessarie delle modifiche non prese in considerazione precedentemente.
A tal proposito nella fase informativa preliminare all’intervento sanitario, ci si può avvalere
di strumenti quali opuscoli e brochure. Il metodo più utilizzato è quello della costruzione di
schede informative scritte, che sarà poi completata da un colloquio successivo, per verificare la comprensione da parte dell’assistito ed eventualmente offrirgli delle spiegazioni personalizzate. Dopo questa fase, è opportuno lasciare all’assistito un tempo di riflessione, di approfondimento, di ricerca, da condividere anche con persone di riferimento. Solo dopo questo periodo di tempo, la firma dell’assistito per esprimere il consenso acquisisce
senso.
Ci sono alcuni soggetti che non sono in grado di esprimere il proprio consenso:
• soggetti in condizioni cliniche critiche (come uno stato soporoso/coma);
• individui con disabilità psichica grave;
• soggetti affetti da patologie come l’Alzheimer.
Si tratta di condizioni in cui il paziente non è in grado di partecipare al consenso informato, perché incompetente su questo versante.
Sul versante sanitario, per capacità decisionale si intende quel soggetto che:
• è in grado di comprendere le circostanze in cui si trova e le informazioni utili per assumere una decisione riguardante le scelte terapeutiche e assistenziali;
• conosce le conseguenze prevedibili di una decisione data;
• comunica la propria volontà in modo coerente, chiaro e comprensibile.
È assodato che, se la valutazione della competenza psicologica del paziente spetta al medico, non può essere ascrivibile al medesimo alcuna valutazione in merito alla capacità di intendere e volere, parametro di esclusiva pertinenza giuridica.

Fonte: “I modelli Assistenziali intra-partum” di Mediserve, di Vittorio Artiola, Simona Novi, Salvatore Paribello, Ferdinando Pellegrino, Giuseppina Piacente, Andrea Vettori

Come si esprime il modello di Advocacy?

Possiamo immaginare che tra le attività di advocacy concepita come giustizia sociale, l’ostetrica/o venga chiamata ad espletare attività di counseling, a favorire l’attaccamento precoce madre/padre e bambino, a promuovere l’allattamento al seno e a supportare il ruolo genitoriale. L’ostetrica può praticare l’advocacy diffondendo la donazione volontaria del latte materno ed alleviando i timori del paziente, oppure aiutando le persone assistite a raggiungere decisioni consapevoli riguardo il proprio stato di salute ed il percorso assistenziale da seguire, ad informarli dei loro diritti e del fatto che il diritto di equità alle cure verrà rispettato, ma anche a mettere in atto una campagna di advocacy.

Che cos’è una campagna di advocacy?

Si tratta di una serie di azioni mirate per influenzare i politici e la popolazione in generale a sostegno di una causa o problema che si desidera modificare. Un esempio di una campagna di advocacy condotta dalle ostetriche potrebbe essere quella di sostenere la donna nelle diverse fasi della gravidanza per aiutarle ad adottare stili di vita funzionali alla gravidanza e prepararla al parto naturale; più a monte la necessità di assicurare la qualità e la sicurezza dei processi assistenziali.

Quali sono le fasi di realizzazione di una campagna di advocacy?

  • La fase di identificazione del problema che occorre affrontare; consiste nell’inquadrare ossia selezionare alcuni aspetti di una realtà percepita e renderli più salienti in tal modo da promuovere una particolare definizione di un problema, l’interpretazione causale, la valutazione morale. Ad esempio in una campagna di promozione di stili di vita funzionali alla gravidanza (ad es. contrastando il fumo, l’uso/abuso di ansiolitici o analgesici….) e di preparazione al parto.
  • La fase di ricerca ossia di raccolta delle informazioni necessarie a garantire che le cause e gli effetti del problema siano compresi; si riferisce alle attività che sono coinvolte nell’individuazione, descrizione, e quantificazione dell’entità di un problema di salute pubblica: caratteristiche con cui si presenta, suoi fattori di rischio e protettivi, sequenze causali, l’efficacia del programma per ogni livello di prevenzione, ostacoli all’efficacia e mutamenti nel tempo in tutti questi fattori.
  • La fase di pianificazione: Quando l’advocacy è stata identificata come la strada appropriata per fronteggiare un problema, c’è la necessità di formulare una strategia, pertanto bisogna stabilire gli obiettivi, gli indicatori, il metodo, le attività, la cronologia. Gli obiettivi devono sempre concordare con quelli di salute pubblica. Gli obiettivi di advocacy attraverso l’uso strategico dei media possono includere un obiettivo trascurato facendo in modo che diventi discusso o più discusso oppure facendo in modo che diventi discusso differentemente; introducendo fatti articolati e prospettive nel dibattito; o introducendo voci differenti in modi calcolati per migliorare l’autenticità o il potere di un argomento.
  • La fase di azione prevede che si agisca in coordinamento con tutti i soggetti coinvolti nella campagna. Questa fase si riferisce alle attività coinvolte nell’attuazione di strategie specifiche, tra cui la raccolta di fondi, specificando tattiche, formulando calendari dettagliati, spostando l’attenzione del personale nelle organizzazioni chiave sul problema. I prodotti intermedi di questa fase includono cambiamenti negli atteggiamenti, abitudini, collocazione delle risorse, ambienti fisici e sociali, e regole sociali che possono influenzare la frequenza o la gravità dei problemi di salute pubblica.
  • La fase di valutazione prevede il monitoraggio delle azioni e dei risultati di tutto il ciclo, ad esempio prevede di decidere quali azioni sono appropriate oppure di rimodulare la campagna di advocacy affinché in futuro venga fatta in modo più efficace.

Queste fasi sono concettualmente sequenziali, ma, in pratica, simultanee. Il lavoro in ogni fase viene continuamente regolato secondo i risultati delle altre fasi. Il lavoro in ogni fase di questa catena di montaggio deve essere continuamente adattato alla luce delle mutate circostanze e dei progressi o degli arresti nelle altre fasi, cosicché anche se l’ultima fase è quella più visibile, il suo successo dipende dalle fasi precedenti. Inoltre l’applicazione di tale campagna ha implicazioni pratiche; ad esempio, i team di difesa della salute pubblica necessitano di membri con competenze complementari in ruoli distinti, ma ben coordinati tra di loro.

Un possibile esempio di applicazione di una campagna di sensibilizzazione di advocacy con un obiettivo rivolto alla salute pubblica potrebbe essere quello di prendere in considerazione le problematiche relative all’assunzione di stili di vita disfunzionali in gravidanza, soprattutto in presenza di patologie come il diabete, e quelle connesse all’elevato ricorso al taglio cesareo.

Una campagna di advocacy in tal senso dovrebbe essere mirata a ridurre l’onere sociale dei problemi di salute pubblica modificando i fattori che favoriscono questi problemi, sia nel contesto sociale e familiare della paziente, che nell’ambito dei processi assistenziali (consultori, reparti ospedalieri).

In tal senso si potrebbe operare verso un’integrazione dei servizi sanitari predisposti alla gestione della gravidanza: medico di famiglia, consultori, reparti ospedalieri, che interconnessi e integrati funzionalmente potrebbero garantire una migliore gestione del processo assistenziale, in tutte le fasi della gravidanza.

Ad oggi tali servizi appaiono scarsamente integrati, con fenomeni di diluizione delle responsabilità, senza azioni comuni per assicurare la sicurezza e la qualità della gravidanza; appare quindi indispensabile intervenire per una migliore gestione ed integrazione delle risorse disponibili nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale.

Successivamente o contestualmente all’integrazione di tali servizi può essere importante favorire campagne di sensibilizzazione verso l’adozione di stili di vita salutari e di riconoscimento precoce di segni e sintomi connessi a patologie di particolare rilevanza clinica, come la gestosi.

In particolare un’appropriata campagna di sensibilizzazione per l’assunzione di stili alimentari appropriati, può essere rilevante per la salute della donna, ma anche del nascituro, sensibilizzando la donna stessa in tal senso, anche dopo il parto. In una campagna di advocacy ci sono tre attori: gli alleati, i neutrali e gli oppositori

Gli alleati, sono rappresentati dalle persone e dalle organizzazioni che supportano la campagna. Gli opinion leaders, le personalità dei media, i membri dei gruppi sono destinati a contribuire con le loro competenze tecniche e con le risorse materiali e finanziarie alla campagna di advocacy.

I neutrali, sono rappresentati dalle persone e dalle organizzazioni che ancora non si sono formati un’idea sulla problematica. Le parti neutrali sono molto importanti nella campagna di advocacy perché possono rapidamente diventare alleati o oppositori.

Gli oppositori sono le persone o le organizzazioni che oppongono una campagna di advocacy.

Le sfide di advocacy spesso provocano reazioni negative da parte delle persone attualmente al potere, o da parte delle persone che seguono altri valori.

L’identificazione degli avversari è importante tanto quanto l’identificazione degli alleati. Capire il ragionamento degli avversari e il motivo per il quale si sentono minacciati dal cambiamento di politica proposto, risulta fondamentale per rendere la campagna di advocacy più efficace. È necessario cercare di convincere gli avversari a cambiare le loro opinioni, o almeno neutralizzare la loro influenza sul cambiamento di politica che si vuole perseguire.

Come possono realizzarsi le azioni di una campagna di advocacy?

L’advocacy della salute pubblica, si realizza efficacemente attraverso l’advocacy dei media. Essa consiste nell’uso strategico dei nuovi mass media per portare avanti un’iniziativa di tattica pubblica.

L’advocacy mediatica cerca di sviluppare e forgiare delle nuove storie di modo che esse rappresentino un supporto per le politiche pubbliche ed infine influenzino coloro che hanno il potere di cambiare o preservare leggi, sancire politiche ed accumulare interventi che possono influenzare l’intera popolazione. Abitualmente riconosciuto come fondamentale per il progetto di salute pubblica, è raramente presa sul serio dalla stessa comunità, rispetto all’attenzione prestata ad altre discipline.

Lo status dell’advocacy come disciplina legittimata resta neofita: pochi, rarissimi sono i programmi sulla salute pubblica indirizzati esplicitamente all’advocacy. Comparativamente ci sono pochi testi manuali e nessuna rivista dedita a quest’esplorazione.

Tuttavia come qualsiasi iniziativa di salute pubblica, un’advocacy efficace richiede un’attenta pianificazione strategica e un altrettanto strategico uso dei moderni mezzi di informazione per essere realizzata.

Una campagna di advocacy consiste in una serie di azioni mirate per influenzare i politici

e la popolazione in generale a sostegno di una causa o problema che si desidera modificare

Le fasi previste per la sua realizzazione sono:

  • fase di identificazione
  • fase di ricerca
  • fase di pianificazione
  • fase di azione
  • fase di valutazione

In una campagna di advocacy ci sono tre attori:

  • Gli alleati: sostengono la campagna
  • I neutrali: possono diventare alleati oppure oppositori
  • Gli oppositori: oppongono la campagna

Attraverso:

  • Siti web.
  • Volantini.
  • Petizioni.
  • Newsletter.
  • Negoziazioni.
  • Conferenze stampa.
  • Scioperi.
  • Opuscoli.
  • Comunicati stampa.

Un caso di organizzazione che applica questo modello di advocacy

L’American Academy of Pediatrics (AAP) è un’organizzazione professionale che include più di 50.000 pediatri. Ha una lunga storia di dedicata, efficiente ed efficace advocacy della salute pubblica e ha sviluppato personale e sistemi a sostegno di questa tematica.

Le funzioni della fase di ricerca sono eseguite da ricercatori interni che raccolgono dati in alcune aree di indagine (ad es. tramite sondaggi utente annuali su temi vari) e dai membri e altri consulenti che lavorano nelle commissioni, gruppi di lavoro, e altri organismi.

Il lavoro della fase di pianificazione comprende anche una vasta diffusione delle informazioni ai membri AAP, alle organizzazioni alleate, al pubblico attraverso unità dedicate all’interno dell’accademia e della messa in rete da parte di organizzazioni nazionali, settori e ai soci con altre società mediche, gruppi di comunità, e le altre organizzazioni rilevanti.

Il lavoro nella fase di azione è condotto dal personale dell’AAP dedicato agli affari di governo, che fa pressione sulle organizzazioni nazionali.

Come faccio a capire se posso essere un’ostetrica/o-advocate?

Gli attributi necessari per poter applicare l’advocacy dei pazienti sono:

  • l’esperienza;
  • la conoscenza;
  • il potere.

Attraverso l’esperienza, le ostetriche acquisiscono le conoscenze che consentono loro di essere sostenitrici più efficaci all’interno del team di assistenza sanitaria e dell’organizzazione.

Il potere di partecipare e di influire sul processo decisionale nasce da entrambe: esperienza e conoscenza. In un’inchiesta, sono stati identificati come importanti caratteristiche dell’operatore sanitario garante per il paziente: la capacità di comunicazione efficace, la conoscenza teoricoscientifica, l’empatia ed il rispetto per la famiglia.

Questo supporta studi precedenti che hanno anche identificato la conoscenza e l’empatia, unitamente all’assertività e alla capacità di comunicazione come attributi importanti affinché si realizzi l’advocacy. Per ottenere questi attributi, le ostetriche devono essere fiduciose nella loro capacità di comprendere i dilemmi etici che si trovano ad affrontare e devono garantire di essere consapevoli dei principi etici basilari per sostenere il loro contributo alle discussioni.

Oltre all’esperienza, alla conoscenza e al potere, le qualità specifiche richieste per essere “sostenitori” dei pazienti, sono:

  • Forti capacità di comunicazione;
  • Capacità di negoziare;
  • Perseveranza;
  • Empatia;
  • Consapevolezza dei bisogni degli altri;
  • Capacità di leggere i segnali e valutare i tempi;
  • Capacità di leadership;
  • Conoscenza delle nozioni sanitarie di base;
  • Essere pensatori del sistema e avere la capacità multitasking sia all’interno e all’esterno del luogo di lavoro.

Fonte: “I modelli Assistenziali intra-partum” di Mediserve, di Vittorio Artiola, Simona Novi, Salvatore Paribello, Ferdinando Pellegrino, Giuseppina Piacente, Andrea Vettori

La persona assistita ed i suoi diritti (advocacy)

Prima di introdurre il concetto di advocacy si rende necessaria una sintetica trattazione storica e legislativa per la presa di visione dell’evoluzione della figura dell’ostetrica/o. L’articolo 1, del codice deontologico dell’ostetrica/o, approvato nel giugno del 2010, e revisionato nel luglio 2014, recita:

“L’ostetrica/o è il professionista sanitario abilitato e responsabile dell’assistenza ostetrica, ginecologica e neonatale; la sua attività si fonda sulla libertà e l’indipendenza della professione”.

Ma come si è evoluta questa figura professionale, nel corso della storia? Come si è giunti, dal considerarla “un mestiere”, al considerarla, una “professione scientifica”? Le origini dell’arte ostetrica si ritrovano nella necessità della donna di essere aiutata nel momento del parto. Essendo il parto un momento importante della vita dell’individuo, si è creduto, per un certo periodo storico, che fosse influenzato da riti e pratiche magiche, così come lo erano nell’antichità tutti i momenti importanti della vita. Il termine che veniva associato a questa figura, nella civiltà egiziana, ma anche nell’antica Grecia e nell’antica Roma era quello di “levatrice”. L’ostetricia romana presentò notevoli progressi di fronte a quella greca, in essa si prediligeva, il parto naturale e, per secoli, l’attenzione al parto da parte dei medici fu solo teorica. Nell’Alto Medioevo, in particolare durante il periodo della Riforma e della Controriforma, questa figura, venne vista come associata ad una serie di pratiche che potevano indurre malefici e sortilegi. Il progressivo intervento degli uomini nella storia del parto, a cominciare dai secoli XVI-XVII, segnò l’introduzione dell’utilizzo del “forcipe”, applicato per la prima volta nel 1670, dal suo inventore Chamberlen. Ben presto, al suo utilizzo si associarono gravi abusi, data l’enorme frequenza di applicazione. Ma è nella seconda metà del XVIII secolo, che prese avvio il grande sviluppo della Scuola Francese di Ostetricia. In essa si contrapposero due orientamenti:

  • una concezione naturalistica del parto, che lo considerava, un evento fisiologico e naturale;
  • una concezione meccanica del parto.

In Italia, a Firenze, l’Ostetricia fu insegnata, in origine, dai cosiddetti “Chirurghi delle donne”. Negli anni successivi fu mantenuta la separazione tra la parte pratica e teorica dell’insegnamento, ma nel 500’ si cominciarono ad usare modelli anatomici in cera o avorio per l’osservazione diretta dei fenomeni con impostazione scientifica. Questo passaggio, segnò una caratterizzazione accademica del parto, per cui prese piede l’esigenza di disporre di luoghi che consentissero, di raccogliere le partorienti per dare modo ai medici di imparare, sperimentando. Si diffusero, pertanto, le cosiddette “Maternità” che nel corso dell’800 erano localizzate in grandi ospedali nelle città. Verso la fine dell’800 cominciarono ad affermarsi medici “scienziati”, che fecero dell’ostetricia una disciplina scientifica.

Nel XX secolo, nonostante la maggior parte delle donne praticasse il parto in casa, si assistette ad una lenta progressione dell’ospedalizzazione. Anche il ruolo dell’ostetrica cambiò considerevolmente, divenendo ausiliario del medico, seppur con responsabilità limitata. Alla crescita professionale, si associava, una “subordinazione” al modello medico. Questa breve trattazione storica consente di prendere visione di come in prima istanza questa figura fosse legata ad una concezione poco professionalizzante, intesa come “mestiere”, per il cui esercizio erano considerate sufficienti forme di “apprendistato”, dove fondamentale era l’acquisizione di competenze operative.
Questa tipologia di conoscenze non costituiva una forma scientifica del sapere ma piuttosto,
derivava dall’esperienza, anche di tipo strettamente personale. Negli anni, si è passati dalla semiprofessionalità alla professionalità. Ma questo passaggio è avvenuto col tempo e con l’emanazione di leggi e decreti ministeriali. A questo proposito, nell’articolo 1, comma 4, DM 740/1994, si recita:
“L’ostetrica/o contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente all’aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca”.

La legge 26.2. 1999 n°42, nell’articolo 1, comma 1, sostituisce alla denominazione “professione sanitaria ausiliaria” quella di “professionista intellettuale”. In tal modo, si definisce un ambito di competenza autonomo per l’ostetrica che si configura come professionista, con responsabilità totale.
Con la Legge 251/2000, nell’articolo 1, si conferisce autonomia professionale agli operatori
delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica. In seguito all’emanazione di tali decreti, con l’istituzione, nel 2000, del Corso di Laurea, l’ostetrica/o, oltre, che entrare di diritto nel gruppo delle professioni intellettuali con una propria autonomia operativa, ha visto riconosciute, le proprie conoscenze in una disciplina a cui viene associato uno statuto scientifico, organizzate in un “corpo sistematico di teoria”.
Il D.Lgs 206/2007, articolo 48, comma 2, inerisce l’esercizio delle attività professionali di
ostetrica/o, ed asserisce che tali figure siano autorizzate ad esercitare le seguenti attività:
• fornire una buona informazione e dare consigli per quanto concerne i problemi della pianificazione familiare;
• accertare ed in seguito, sorvegliare la gravidanza diagnosticata come normale da un soggetto abilitato alla professione medica;
• effettuare gli esami necessari al controllo dell’evoluzione della gravidanza normale;
• prescrivere gli esami accessori per la diagnosi, quanto più precoce, di gravidanza a rischio.
La parola ostetrica deriva dal latino “obstetrix”, che vuol dire stare di fronte. La parola inglese, Midwife, letteralmente “colei che sta con la donna” riconosce l’unicità di questa professione sanitaria rispetto alle altre. Da questa concezione, deriva il modello della Midwifery, ossia, la scienza dell’assistenza alla persona (donna, coppia, feto/neonato, famiglia, comunità) nell’ambito degli eventi naturali delle fasi del ciclo sessuale – nascita, pubertà, età fertile, gravidanza – parto e puerperio e menopausa.
A questo proposito, nell’articolo 3.2. del codice dell’ostetrica/o, si dice:
“l’ostetrica/o si impegna a garantire la continuità assistenziale accompagnando e prendendosi cura della donna, della coppia, del nascituro, durante la gravidanza, il travaglio, il parto ed il puerperio, al fine di garantire la salute globale degli assistiti”.

Nell’esercizio di quest’attività diventa fondamentale la promozione della salute, cercando di tirare fuori le abilità possedute dalle persone per aumentare il controllo su di essa e per migliorarla. È in questo contesto di mutamento e di affermazione di autonomia che crediamo si possa diffondere il concetto di advocacy, nell’ambito di questa professione.
Ci immaginiamo, ad esempio, che la semplice funzione di ostetrica/o, quale strumento di trasmissione di informazioni e conoscenze, potrebbe manifestarsi anche nel contribuire, informando, alla continuità assistenziale dopo il parto, con la valutazione e la rieducazione del perineo, con prestazione di consulenza e sostegno all’allattamento al seno, oppure attraverso la diffusione di informazioni per la pratica del massaggio infantile o dell’eventuale contraccezione da applicare.

Etica della responsabilità

L’articolo 2.1 recita:

L’ostetrica/o presta assistenza rispettando la dignità e la libertà della persona promuovendone la consapevolezza in funzione dei valori etici, religiosi, culturali, nonché, delle condizioni sociali nella esclusiva salvaguardia della salute dei suoi assistiti.

L’articolo 2.2 recita:

Il comportamento dell’ostetrica/o si fonda sul rispetto dei diritti umani universali, dei principi di etica clinica e dei principi deontologici della professione. Ciò detto, riteniamo, che i concetti etici su cui si fonda la presa di decisioni etiche da parte dell’ostetrica/o siano:

  1. la competenza;
  2. la cooperazione;
  3. il caring;
  4. l’advocacy.

Ma nella pratica, cosa vuol dire assumere un comportamento etico e responsabile? Partendo dall’etimologia, ethos dal greco significa comportamento; responsabile deriva dal latino respondeo, e vuol dire rispondere. Quindi l’etica responsabile si manifesta con un comportamento che risponde a qualcuno o a qualcosa, nel caso dell’ostetrica/o, al paziente o come vedremo in seguito, più in generale alla collettività.

L’advocacy – Ma che cos’è?

Nel contesto legale il termine advocacy si riferisce alla difesa dei diritti umani primari a nome di coloro che non sono in grado di farlo per sé stessi. Ma il termine advocacy viene anche utilizzato per descrivere la natura del rapporto tra il professionista sanitario ed il paziente. In ultima istanza essa può essere definita come “il supporto attivo dato ad una causa importante”. L’advocacy rientra tra i quattro concetti su cui si fonda la presa di decisioni etiche da parte dell’ostetrica/o. In letteratura esistono numerose definizioni ed altrettante interpretazioni di questo concetto. Questo termine apparve in lingua anglosassone, sulla scena mondiale, ed è inserito in numerosi codici deontologici tra cui quello degli infermieri. L’interpretazione più comune di questo concetto risale alla descrizione che la ritiene il fondamento filosofico della relazione con il paziente. Altri autori affermano che per advocacy si intenda: “il supporto al paziente in tutte le situazioni assistenziali, per garantire i diritti e gli interessi del paziente in una sincera partnership, dove i professionisti sanitari, vedono il paziente come un vero amico”. Tale definizione mette in luce una doppia contraddizione, innanzitutto non è assodato che un amico possa agire nel migliore interesse del paziente ed in seconda analisi questa definizione estremizza la visione paternalistica del concetto di advocacy. C’è invece chi, supera la concezione paternalistica di advocacy e la ricongiunge ad una visione più olistica e improntata ad un’attività sociopolitica che deve essere effettuata dalle ostetriche nei vari contesti di cura.

In letteratura emergono quattro principali modelli di advocacy:

  1. Il modello di advocacy per la conservazione dei migliori interessi del paziente.
  2. Il modello di advocacy per il rispetto dei diritti umani del paziente.
  3. Il Modello di advocacy per il rispetto dell’autonomia del paziente.
  4. Il modello di advocacy per la giustizia sociale nei confronti di tutti i pazienti.
  5. Il modello di advocacy per la conservazione dei migliori interessi del paziente

È il modello di advocacy caratterizzato dall’operatore che agisce per il bene del paziente, con un paternalismo benevolo. In questo modello l’ostetrica/o è un fedele esecutore delle decisioni mediche e non un professionista autonomo con un suo campo di responsabilità e dove il paziente buono è quello obbediente. Ma questo tipo di approccio lascia aperte due grandi questioni:

  • Chi può dire quali sono le decisioni giuste per il paziente?
  • Si rispetta il diritto di autodeterminazione del paziente?

Questo modello si muove su una relazione diadica operatore sanitario-paziente e non olistica ed allargata alla comunità. La sua applicazione deve essere superata dalle nuove concezioni e dalle rimodulazioni e dagli aggiornamenti del codice.

  1. Il modello di advocacy per il rispetto dei diritti umani del paziente

In questo modello di advocacy l’operatore è concepito come un “facilitatore”, un “formatoreinformativo” che agisce nell’interesse disinteressato del paziente, per informarlo sui suoi diritti umani fondamentali; ma questo atto, non si situa ancora nella facilitazione e nell’agevolazione dell’esercizio autonomo di scelta del paziente. Questo modello si muove ancora su un’impostazione diadica.

  1. Il modello di advocacy per il rispetto dell’autonomia del paziente

L’azione dell’ostetrica/o è incentrata sull’autonomia dell’assistito, infatti l’articolo 3.10 recita:

L’ostetrica/o al di fuori dei casi, di emergenza/urgenza, prima di intraprendere sulla persona qualsiasi atto professionale, garantisce l’adeguata informazione al fine di ottenere il consenso informato, sulla base di una vera e propria alleanza terapeutica con la persona”.

Questo modello di advocacy è stato individuato come un fondamento che caratterizza il nursing e lo differenzia dalle altre professioni sanitarie. Alcuni autori hanno individuato nell’advocacy qualcosa che si basa sul principio di autodeterminazione che rappresenta il migliore dei diritti umani fondamentali. In tale contesto il “core” di ogni atto di questo modello di advocacy è quello di supportare l’individuo a diventare consapevole dei propri valori e desideri di salute attraverso un processo di autoesame. Questa concezione dell’advocacy diventa un particolare banco di prova per la figura dell’ostetrica/o, che si confronta con pazienti, i neonati, che sono silenziosi e i cui valori sono inaccessibili, oppure sono inabili ad esprimere i propri desideri, affinché venga loro dato rispetto. Un esempio di applicazione di questo modello in un nido, potrebbe essere quello dell’ostetrica/o che nel preoccuparsi della dignità dei neonati, dimostra loro rispetto, proteggendo i piccoli dagli occhi curiosi delle persone che vogliono vederli, in modo spesso insistente, specie quelli nati prematuri. Le ostetriche sono state descritte spesso come “sostenitrici del bambino” e “madri surrogate”, ma spesso si trovano in grave disaccordo sulle problematiche legate a situazioni di non-trattamento. Ad esempio, nel caso della cura di un bambino morente che continua a ricevere la ventilazione assistita, le ostetriche possono sostenere la sospensione del supporto vitale. Alcuni autori hanno rilevato che a causa della loro stretta relazione con le risposte dei neonati, queste figure professionali, spesso raggiungono decisioni prima dei medici e dei genitori. Quando si prendono in considerazione le ostetriche, bisogna tener conto che i bambini, ossia l’oggetto principale delle loro cure, sono in fase di sviluppo e stanno per diventare individui il cui potenziale si raggiunge nel tempo. È questo potenziale che spesso le motiva ad agire come “avvocati” in rappresentanza, nella speranza che il bambino sviluppi e viva una vita di qualità. Le ostetriche usano le loro esperienze precedenti di assistenza clinica per identificare le circostanze in cui percepiscono che l’advocacy sia opportuna. Ad esempio, proteggendo un neonato da più esami si consente al bambino di autoregolare il comportamento, evitando in questo modo, l’instabilità fisiologica. Poiché il bambino è parte del nucleo familiare, le relazioni si possono sviluppare anche tra le ostetriche e le famiglie dei neonati. In questo approccio, l’etica della cura è un ideale che migliora l’esperienza degli individui i cui valori umani possono cambiare con la malattia e che potrebbero avere bisogno di aiuto per chiarire i cambiamenti nel tempo. Quando le ostetriche sono coinvolte nel sostegno ai genitori per la malattia dei loro figli, che soffrono e muoiono, muovendosi tra decisioni riguardanti i loro trattamenti ed il loro futuro, possono fungere da loro “avvocati” esistenziali. Ma nei contesti di applicazione ginecologica e neonatale, c’è una linea sottile tra l’advocacy e il paternalismo, in particolare quando i pazienti, come ad esempio i bambini, non possono parlare. Si rende utile in tali contesti, pertanto l’applicazione di un approccio olistico da adottare per chiarire i desideri e le esigenze della famiglia, al fine di sostenere in modo efficace i neonati, chiarendo in tal modo questa linea sottile, al limite tra paternalismo ed advocacy.

Le relazioni che si instaurano tra famiglia e l’ostetrica/o sono in rapporto di mutuo soccorso, poiché ciascuno si sforza di ottenere ciò che vede come il migliore interesse per il paziente, da parte dell’operatore, e per il bambino, da parte delle famiglie. Se le ostetriche devono essere rappresentanti dei pazienti, hanno bisogno di avere un’ampia comprensione dei loro pazienti e delle loro famiglie. Queste operatrici spesso sanno cosa è meglio per i loro pazienti da un punto di vista clinico, ma la loro conoscenza non può estendersi nell’ambito dei valori dei pazienti. Tuttavia, quando hanno sviluppato rapporti assistenziali con i loro pazienti e le famiglie, allora possono fornire intuizioni uniche sui loro valori. Esse possono essere poste in situazioni in cui ricevono informazioni dalle famiglie e questo a sua volta dà loro la sicurezza di parlare al loro posto. L’advocacy in ostetricia comprende sia l’agire nel migliore interesse del minore che la facilitazione dell’adulto nel processo di auto difesa, sostenendo in tal modo i principi etici differenti di autonomia e migliore interesse. Anche la rappresentazione dei punti di vista dei genitori e del bambino sono fondamentali nel ruolo di tale assistenza ginecologica e neonatale.

  1. Il modello di advocacy per la giustizia sociale nei confronti di tutti i pazienti

Bu e Jezewski (2007) identificano tre attributi principali di advocacy:

  • salvaguardia dell’autonomia del paziente;
  • azione per conto dei pazienti che non sono in grado di agire da soli;
  • difesa della giustizia sociale.

I primi due attributi si concentrano sulla difesa a livello del singolo paziente, il tipo di difesa più spesso discusso nella letteratura, e più familiare agli operatori sanitari in prima linea (Bu e Jezewski, 2007; Spenceley, Reutter, & Allen, 2006).

In Nord America, è diffusa una lunga storia attinente al terzo attributo descritto da Bu e Jezewski: difendere la giustizia sociale con l’obiettivo di migliorare la salute della popolazione (Ballou, 2000). Nel secolo scorso, le ostetriche sono state per lo più un gruppo politico silenzioso. Ma negli ultimi anni, gli studiosi hanno iniziato a riportare la giustizia sociale nella corrente principale del discorso di assistenza, incoraggiando ad occuparsi di lavoro di giustizia sociale e spingendo per la difesa che si muove al di là del capezzale e al di fuori delle mura delle istituzioni in cui la maggior parte delle ostetriche lavorano. Per comprendere al meglio il concetto di advocacy nell’ambito della giustizia sociale Butterfield (2002) fa riferimento ad una parabola per contrastare la pratica tradizionale con la pratica radicata nella advocacy della giustizia sociale.

In questa parabola, gli individui “a monte” cadono in un fiume, mentre la gente lavora freneticamente “a valle” per cercare di salvare queste persone dall’annegamento. Uno dei soccorritori si rende conto dell’inadeguatezza dei loro sforzi e chiede ai suoi compagni soccorritori di accompagnarlo “a monte” per determinare ed indirizzare i fattori che contribuiscono alla caduta dellepersone nel fiume, così che ulteriori annegamenti possano essere prevenuti. Butterfield fa riferimento a questa parabola per la pratica infermieristica, descrivendo come gli individui siano esposti a condizioni ambientali che inducono a malattia, ossia gli ambienti e gli stili di vita della parabola a “monte”, mentre le ostetriche, seguendo un’ottica meno olistica e più individuale, focalizzata sul rapporto esclusivo col paziente, si sono spesso concentrate “a valle” cercando di salvare (curare, trattare e gestire) coloro che sono già malati. Un esempio può essere chiarificatore: si consideri il caso di una gestante con diabete che è riammessa in ospedale con iperglicemia sintomatica per la terza volta in un lasso di tempo limitato. La valutazione di ammissione scopre che questa paziente è irregolare nel prendere le sue medicine, non segue una dieta per diabetici, e non fa esercizio regolarmente. Se il contesto non viene preso in considerazione nell’assistenza a questa paziente, le probabilità sono che sarà etichettata come non aderente alle cure. Gli interventi medici in ospedale forniranno risoluzione a breve termine per l’iperglicemia; la paziente sarà dimessa e sarà probabilmente riammessa in pochi mesi con lo stesso problema. Tuttavia, i comportamenti di questa paziente assumono una dimensione diversa, se esaminati dal punto di vista della giustizia sociale.

Quando il contesto socioeconomico viene preso in esame, questo allargamento di prospettive, determina che la paziente manchi di risorse finanziarie sufficienti per pagare per tutti i suoi farmaci e di conseguenza sia costretta a razionarli. Il suo limitato reddito preclude l’acquisto di alimenti freschi per cui si nutrirà con carboidrati. Inoltre, si scoprirà che questa paziente, per trovare un alloggio in base ai suoi mezzi, si è dovuta trasferire in un quartiere che descrive come “dominato dal crimine”. Riferisce di non impegnarsi in attività fisica al di fuori della sua casa perché teme per la sua sicurezza personale. Visti da una prospettiva “a monte”, i comportamenti di questa paziente non sono “non aderenti” alla compliance. Piuttosto, essi sono un prodotto delle sue condizioni sociali ed economiche. Se le principali cause di iperglicemia di questa paziente ossia le insufficienti risorse finanziarie e le condizioni di vita non sicure, non vengono affrontate, il probabile esito proseguirà in esacerbazioni che risulteranno dispendiose sia per la paziente che per l’assistenza sanitaria. Secondo Butterfield (2002), un approccio individuale “a valle” verso la salute può anche promuovere, una mentalità tendente alla colpevolizzazione della vittima, perché la malattia è attribuita a fattori individuali (spesso comportamentali) piuttosto che ad un contesto sociale, economico, politico e ambientale in cui esistono questi comportamenti. Al contrario, secondo Spenceley et al., (2006), la pratica applicata a “monte”, riconosce che il potenziale per la salute è incorporato in sistemi sociali, economici e politici; riconosce che gli outcome della salute sono intrinsecamente legati a tali sistemi e cerca di affrontare le questioni di salute spingendo per il più ampio cambiamento sistemico. Secondo questo modello di advocacy concepita come giustizia sociale, l’obiettivo che si persegue è incentrato su un livello comunitario, trasbordando i confini del rapporto individuale tra operatore sanitario e persona assistita. Ne consegue, quindi, che sia per la valutazione che per l’intervento, dell’ostetrica/o, sarà necessario prendere in considerazione non solo il singolo paziente e i suoi bisogni immediati, ma anche il contesto in cui gli individui vivono, che sviluppa le loro opportunità per la salute e per il benessere. Questa tipologia di pratica, definita “a monte” trascende le nozioni tradizionali di assistenza radicata nel rapporto individuale ostetrica/o-paziente ed allarga l’assistenza alla comunità e alla popolazione con l’obiettivo di migliorare la salute dell’individuo migliorando la salute della società in generale (Bekemeier, 2008). Tale modello di advocacy di giustizia sociale invita a lavorare allineando “ciò che è” a “ciò che dovrebbe essere”, diventando impegnati in questioni sociali e politiche che influiscono sulla salute della comunità e della società (Bu Bu & Jezewski, 2007).

Anche se i codici professionali definiscono l’advocacy della giustizia sociale come un’aspettativa della pratica, è evidente dalla letteratura che nella pratica della maggior parte delle ostetriche, questo impegno è ai suoi primordi. I collegi e le associazioni professionali hanno quindi una responsabilità speciale per unirsi coi cittadini abbracciando l’advocacy per la giustizia sociale attraverso obiettivi basati sull’evidenza.

 

Fonte: “I modelli Assistenziali intra-partum” di Mediserve, di Vittorio Artiola, Simona Novi, Salvatore Paribello, Ferdinando Pellegrino, Giuseppina Piacente, Andrea Vettori

 

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